Il soffritto

Notizie storiche

La zuppa forte era chiamata in tre modi: zuffritto, saporiglio, otosciano.

Il soffritto è un piatto povero di riciclo delle interiora del maiale; originariamente era preparato dalle donne napoletane in grossi pentoloni e venduto nei vicoli della città a coloro che la mattina si recavano a lavorare, inserendo la zuppa forte all’interno di un pezzo di pane svuotato della mollica.

Il soffritto è prodotto agroalimentare tradizionale campano, riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali in seguito alla proposta della Regione Campania.

Ricetta

Tagliare a tocchetti di circa 2 cm 1800 grammi interiora di maiale (polmone, trachea, cuore, milza) e immergerle un paio d’ore in acqua fresca, avendo cura di cambiarla ogni tanto. Asciugare la carne e metterla in una casseruola con un cucchiaio d’olio d’oliva e 100 gr di sugna, rosolandola a fuoco forte. Quando le interiora saranno ben rosolate, aggiungere mezzo bicchiere di vino rosso secco e quindi 30 gr di conserva di pomodoro diluito in una tazzina d’acqua, 200 gr di concentrato di pomodoro, una foglia d’alloro, un pezzetto di peperoncino, un rametto di rosmarino e sale. Lasciar cuocere per qualche minuto e quindi aggiungere un paio di bicchieri d’acqua. Terminare la cottura facendo cuocere per un paio d’ore aggiungendo acqua secondo necessità.


Citazioni

Ulisse Prota-Giurleo ritrovò, sul retro di uno strumento notarile risalente al 1743, una ricetta della zuppa di soffritto, che si ritiene dettata da una donna di nome Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana frequentata da persone che svolgevano la funzione di legali. Il saggista e giornalista riportò la ricetta:

«Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna (strutto) abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna (foglia) di lauro. Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli (peperoni) rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli (peperoncini piccanti a forma di ciliege) in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento. Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè Rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna. Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane».

La scrittrice e giornalista Matilde Serao, ne “Il ventre di Napoli”, pubblicato nel 1884, descrisse così il piatto: «La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite».

Il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo amava particolarmente il soffritto. Scrisse queste parole per omaggiare la taverna “La Paglairella” di Giovanni Solla nel quartiere Vicaria: «Qui veniva a mangiare gente più fine, che sollevava a onori non più immaginati il suffritto».

I garzoni delle taverne, dove veniva servita la pietanza, erano soliti richiamare l’attenzione dei passanti con le loro voci, riportate in una commedia di Pietro Signorelli:

«currite cannaruti, ca mo’ proprio
l′accuppatura de lo tosciano.
È cuotto, e tengo pure na veppetella
d’amarena che co’ l′addore te rezorzeta
no muorto;
currite ‘mbreacune, a sei trise
(tornesi) la carrafa e tengo
la mangiaguerra pure a doje trise».

Fonti bibliografiche e sitografiche

Jeanne Caròla Francesconi, La cucina napoletana, Napoli 1965

Luciano Pignataro, La cucina napoletana, Milano 2016

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