Elenco ragionato dei principali beni di interesse demoetnoantropologico della città di Napoli

Si pubblica di seguito un primo elenco ragionato dei beni di interesse demoetnoantropologico della città di Napoli.

Chiunque voglia segnalare aggiunte, omissioni, correzioni e approfondimenti potrà scrivere a laura.giusti@beniculturali.it precisando nell’oggetto la dicitura “elenco ragionato beni demoetnoantropologici città di Napoli”.

Le schede di approfondimento dei cibi della tradizione  sono a cura di Laura Giusti, Valentina Santonico e Stefano Moscatelli con la collaborazione di Carmela Iodice e Martina Specchio. Tutto il materiale fotografico usato per documentare i beni è stato tratto o dal profilo Instagram @demoetnonapoli o da invii spontanei da parte di collaboratori, debitamente documentati.

CULTURA ORALE
(Teatro, Musica, Danza)

L’opera dei pupi

Teatro di marionette le cui rappresentazioni si svolgono all’epoca di Carlo Magno. I protagonisti sono i paladini del re e le tematiche sono ispirate al ciclo della Chanson de Roland , all’Orlando Furioso, all’Orlando Innamorato ed al Morgante.

L’opera dei pupi, nata in Sicilia, si diffuse a Napoli nella prima metà dell’Ottocento grazie a Giuseppina Errico o d’Errico, detta “donna Peppa”, pupara napoletana attiva dal 1826 (della Errico è anche conservato un ritratto presso la sezione teatrale del Museo di San Martino a Napoli). A Napoli, oltre alle tematiche cavalleresche, si affermò anche un altro tipo di rappresentazione i cui protagonisti erano i “guappi” (cammorristi) napoletani, con storie ambientate nel Regno di Napoli.

Le guarrattelle

Antico spettacolo di strada citato anche nel Pentamerone di Giovan Battista Basile, oggi praticamente scomparso. Le ‘guarattelle’ erano spettacoli di marionette (il nome deriva appunto dal napoletano ‘guarattino = burattino); il protagonista più conosciuto era Pulcinella.

La cantata dei pastori

Opera tardo seicentesca arricchita e modificata nei secoli successivi, che racconta il viaggio di Maria e Giuseppe a Betlemme mentre i diavoli cercano in tutti i modi di impedire la nascita del Messia. Tra i personaggi più famosi Razzullo, uno scrivano che si trova anche lui in Palestina per il Giubileo, e Sarchiapone, in fuga dopo avere commesso due omicidi. Ai giorni nostri l’opera è conosciuta per essere stata messa in scena per molti anni da Peppe Barra. Confronta anche il testo omonimo di Roberto De Simone edito da Einaudi nel 2000.

La sceneggiata

Rappresentazione teatrale e musicale molto semplice e poco dispendiosa che si sviluppa nel primo dopoguerra per eludere le ingenti tassazioni imposte agli spettacoli di varietà. La sceneggiata nasce come messa in scena in tre atti di una canzone popolare; i protagonisti più affermati furono Salvatore Cafiero e Eugenio Fumo. Articolata tra monologhi, parte recitate e cantate, balli, si basa su copioni semplici, ispirati alla vita quotidiana e soprattutto ai rapporti amorosi. I personaggi principali sono “isso” – il protagonista maschile – “essa” – la protagonista femminile – e “ ‘o malamente”, il cattivo.

I temi sono stati ripresi negli anni ’70 e ’80 da Mario Merola nelle sue canzoni e nei film di cui è stato protagonista.

Il Pazzariello

Reso celebre da Totò nel film L’oro di Napoli, il pazzariello era un imbonitore che girava per le strade vestito con abiti da generale borbonico (una marsina, una camicia svolazzante, pantaloni a righe, una feluca) ed un bastone dorato. Spesso accompagnato da un piccolo gruppo di suonatori, era un ambulante che pubblicizzava attività commerciali come osterie e negozi. Il pazzariello è stata una figura molto diffusa per tutto il XIX secolo e sino alla metà di quello successivo.

Le grida

Sino alla fine degli anni ’60 si potevano ancora sentire per la strada i richiami dei venditori ambulanti che vantavano i pregi della propria merce. Pescivendoli che esaltavano la freschezza del proprio pesce che “mo’ pazziava dint’ e’ scoglie” (che fino a poco fa giocava tra gli scogli), fruttivendoli le cui albicocche “so’ cu’ a cannella ‘a rinto” (hanno all’interno profumo di cannella) e le cui ciliegie sono “rosse e toste comm’e facce d’e femmene noste’ (rosse dure come le facce delle nostre donne), venditori di pettini che minacciavano attacchi di pidocchi “accattateve ‘ o pettine, si no’ purucchie a cuòfene!”, venditori di sorbetti che vantavano una ricetta esclusiva “prova ‘sta bella sorbetta, io sulo ‘ne tengo ‘a ricetta!” sono solo alcuni esempi del ricco patrimonio delle ‘grida’ che animavano la vita cittadina.

La posteggia

Gruppo di suonatori ambulanti che gira tra gli avventori si ristoranti e caffè. Il più famoso posteggiatore napoletano è stato Enrico Caruso, che iniziò a cantare giovanissimo nei bagni Risorgimento a via Caracciolo. Sino a qualche decennio fa la posteggia era costituita da quattro o cinque suonatori; oggi generalmente da uno o massimo due.

La Tarantella

La tarantella è un ballo di origini campane o sorrentine, ma diffuso anche a Napoli. Da segnalare il legame intrinseco con l’evento musicale durante la sua esecuzione: la musica senza la danza risulta incompleta.

Il teatro napoletano

Il teatro napoletano è fenomeno di ampio respiro storico e culturale. Non è ovviamente riconducibile ad una dimensione esclusivamente demo-etno. Si tratta di un fenomeno almeno nazionale, colto e popolare insieme. Nel caso di Eduardo De Filippo, ad esempio, parliamo di uno degli autori drammatici più importanti del teatro europeo del novecento. Resta il fatto che l’esperienza del teatro in lingua napoletana si inscrive in modo stringente anche nella cultura quotidiana borghese e popolare.

Petito e la maschera di Pulcinella

Il costume di Pulcinella – antico personaggio della commedia dell’arte – con lunga casacca bianca stretta in vita da una cinta, larghi pantaloni e cappello a pan di zucchero, è stato inventato da Antonio Petito (1822 – 1876), il più conosciuto interprete della maschera napoletana, da lui resa celebre in tutto il mondo. Discendente di un’antica famiglia di teatranti (il padre Salvatore era una altro celebre Pulcinella, e la madre, “donna Peppa”, celebre pupara), Petito rielaborò l’antico personaggio con toccanti approfondimenti psicologici, ambientandone le storie in contesti di grande attualità sociale. Fu indiscusso animatore del teatro San Carlino ed apprezzatissimo da tutti i ceti sociali. La maschera, oggetto di recupero e trasformazione in tutto il mondo, è personaggio teatrale simbolo della città, via via affiancato e/o sostituito da nuovi personaggi e attori di una grande tradizione a venire (v. oltre).

Eduardo Scarpetta e Felice Sciosciammocca

Scarpetta è il protagonista di un successo formidabile raggiunto grazie alla mescolanza della recitazione in vernacolo con i modelli medio-alti della pochade francese. Di molti successi parigini egli offre una versione napoletana innervando in quei perfetti meccanismi di commedia la forza performativa del napoletano teatrale, del parlato quotidiano e di una koinè dialettizzata cittadina, con immediati ed efficaci riferimenti sociologici, vicini al grande naturalismo teatrale europeo. Il suo successo prosegue dopo la morte, fino ad oggi ininterrotto, grazie al lavoro del figlio Eduardo De Filippo, creatore della Compagnia Scarpettiana e autore di una fondamentale ricostruzione filologica di alcune commedie esemplari, realizzate per la televisione, ma soprattutto grazie ad una tradizione filodrammatica popolare che ha fatto di Felice Sciosciammocca un eroe eponimo della città.

Raffaele Viviani

Viviani si innesta su quel fenomeno di mescolanza di genere, tra dramma e canzone, nato per sopravvivere alle restrizioni censorie di cui è oggetto il teatro di varietà con la grande guerra. Lo spettacolo “a numeri” viene calato e “dissolto” in una cornice di dramma ad intreccio, salvando così repertorio, attitudini e talenti di una delle più grandi “scuole” recitative d’Europa. Viviani va però oltre, creando drammi assolutamente rivoluzionari, dove epica e mimesi, musica e recitazione, non solo si alternano, ma si fondono in un crogiolo eversivo di lingua plebea ed istanze sociali. Egli è oggetto, a partire dagli anni settanta del novecento, di un importante recupero colto, alla luce della lezione di Bertold Brecht, di cui, per molti, fu un istintivo anticipatore.

Eduardo De Filippo

La tradizione filodrammatica in dialetto trova in Eduardo De Filippo il suo autore di culto. Il fenomeno va al di là del fatto teatrale. Commedie e drammi come Natale in casa Cupiello, Questi fantasmi!, Sabato, domenica e lunedì e Filomena Marturano, con i relativi personaggi, raggiungono una moderna dimensione mitica ed orale insieme. Molte battute di quei testi entrano nel linguaggio di tutti come sintesi poetiche di verità morali condivise e come manifestazione prestigiosa di un ethos da rispettare e possibilmente da imitare. Detta tradizione non si limita infatti a produrre repliche devote di opere amate e conosciute ma, come anche per la Cantata dei pastori, e per qualche classico della sceneggiata (‘O zappatore), inserisce queste messinscene in una sorta di rituale laico che si ripete.

La canzone napoletana

Anche la canzone napoletana, fenomeno di ampio respiro storico e culturale, non è riducibile ad una dimensione esclusivamente demo-etno.

La canzone classica

La canzone napoletana classica di impronta melodica nacque intorno alla metà dell’Ottocento; molti critici ne fanno risalire l’inizio al 1839, con la presentazione della famosissima Te voglio bene assaje alla festa di Piedigrotta. In un momento in cui la conoscenza e la diffusione dei brani dipendeva dall’ascolto dal vivo e dalla transmedialità dello spartito, la festa di Piedigrotta era palcoscenico ideale per esibizioni con nuove canzoni. Si sviluppò anche una microeconomia legata alla stampa degli spartiti e delle ‘copielle’, foglietti con il testo e lo spartito musicale, che venivano spesso distribuite gratuitamente. Impossibile elencare in modo esaustivo le più famose canzoni del repertorio classico, che raggiunse il suo apice nel periodo a cavallo tra i due secoli, considerato l’epoca d’oro di questo genere musicale. Testi di grande lirismo, intrisi di poesia, atmosfere crepuscolari, profondi sentimenti sono accompagnati da melodie struggenti. L’autore più affermato fu probabilmente Salvatore Di Giacomo, ma vale la pena di segnalare anche Libero Bovio, E.A. Mario, Ferdinando Russo ed Ernesto Murolo. Nei primi decenni del Novecento, grazie all’emigrazione di molti napoletani in terre d’oltreoceano ed all’interpretazione dei brani più noti da parte di famosi cantanti lirici – primo fra tutti Ernesto Caruso – la canzone napoletana fu conosciuta in tutto il mondo ed ebbe grandissima diffusione. Tra il 1931 ed il 1932 a Sanremo fu organizzato a più riprese un ‘Festival Napoletano’ diretto da Ernesto Murolo. Il Festival era un mix di scenette, balli e soprattutto di canzoni; scopo dell’iniziativa era quello di offrire un nuovo spunto turistico ai frequentatori benestanti della costiera ligure e del Casinò sanremese con un prodotto di sicuro successo: la musica napoletana. Nel secondo dopoguerra la canzone napoletana classica ebbe nuovo sviluppo, grazie soprattutto alle straordinarie interpretazioni di Roberto Murolo ed alle innovazioni apportate da Renato Carosone. Il genere continuò ad avere ampia diffusione in tutta l’Italia grazie al “Festival di Napoli”, organizzato a Napoli dalla RAI, la cui prima edizione si svolse nel 1952. La formula del festival prevedeva che due cantanti – in genere uno napoletano ed uno ‘italiano’ – interpretassero lo stesso brano. La manifestazione era molto seguita: come non ricordare che nel film Operazione San Gennaro (1966) il furto del tesoro di San Gennaro era organizzato in concomitanza con il Festival, nella certezza che tutti sarebbero stati impegnati a seguire la trasmissione televisiva? Il Festival si chiuse nel 1970, a segnare una profonda crisi della canzone napoletana.

La canzone napoletana ‘etnica’

Alla fine degli anni ’60 l’incontro di Roberto De Simone – musicista e musicologo napoletano – con un gruppo di giovani musicisti orientati verso lo studio della musica popolare, portò alla nascita della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Il gruppo mirava al recupero delle tradizioni teatrali e musicali campane, un recupero colto, fatto di studi su antichi testi e documenti e di ricerche sul territorio, che ha contribuito enormemente alla conoscenza ed alla diffusione della tradizione della musica campana.

La canzone napoletana neomelodica

La canzone napoletana neomelodica ha avuto grande diffusione a partire dalla metà degli anni ’80, grazie a quella che è stata una vera e propria rivoluzione musicale promossa da Nino D’Angelo. Mentre la canzone napoletana classica si ambientava in una città dalle tinte oleografiche, quella neomelodica nasce e si rivolge al ‘popolo dei quartieri’, di cui esprime ed interpreta passioni e valori. I parolieri neomelodici raccontano la vita del ceto sociale cui essi stessi appartengono, una vita fatta spesso di carcere, droga, pentiti, criminalità, la vita di quella Napoli che si sente diversa e lontana dal resto d’Italia. Il mercato della canzone neomelodica è fiorente, legato sia alla produzione discografica che alle rappresentazioni dal vivo durante feste e cerimonie private e pubbliche.

Strumenti musicali tradizionali

Le castagnette (simili alle nacchere)

Strumento a percussione di importazione spagnola. Le castagnette napoletane, usate per accompagnare i balli di strada, sono più piccole delle nacchere spagnole e sono in genere a coppia: quella che emette il suono più cupo – il maschio – si usa con la destra, mentre quella che produce il suono più acuto si usa con la sinistra.

La tammorra

Strumento a percussione nato per accompagnare la Tammurriata (danza campana più che napoletana) costituito da un telaio rotondo in legno – in origine era ricavato dai setacci della farina – su cui è tesa una pelle animale. Al telaio sono fissati piattelli metallici , i ciceri, in genere ricavati dalle ‘buatte’ di latta. Con una mano il suonatore muove lo strumento per fare suonare i piattelli e con l’altra lo percuote ritmicamente usando il palmo della mano o i polpastrelli.

Lo scetavajasse

Strumento rudimentale dal suono un po’ stridulo – da cui il nome “scetavajasse” , da “sceta” (sveglia) e “vajassa” (domestica o popolana volgare, bagascia) – costituito da due assi di legno, di cui una dentellata, che vengono strofinate tra loro come l’archetto su un violino. Ad una delle due assi sono in genere attaccati piattelli metallici. Strumento povero utilizzato generalmente con il putipù ed il triccccheballacche. Diffuso in tutta l’Italia meridionale.

Il triccheballacche o triccaballacche

Strumento a percussione costituito da tre martelletti lignei (quello centrale fisso ed i due laterali mobili) che vengono battuti tra loro. Ai due martelletti laterali sono in genere fissati piattelli metallici e campanellini. Diffuso in tutta l’Italia meridionale.

Il putipù o caccavella

Tamburo a frizione costituito da una camera di risonanza in legno, latta o coccio su cui è tesa una pelle animale nella quale, attraverso un foro, viene fatta sfregare una canna. Diffuso in tutta l’Italia meridionale. Tutti questi strumenti popolari potevano essere facilmente realizzati con materiale di riciclo ed usati anche da non professionisti.

IL CULTO, LA FESTA

La devozione per San Gennaro

La devozione per San Gennaro non è circoscritta al solo territorio napoletano ma è diffusa in tutto il mondo grazie soprattutto al ricordo delle famiglie degli emigranti. Il ruolo del santo patrono nella vita della città è stato da sempre molto attivo, così come scriveva Alessandro Dumas nel 1843 ne “Il corricolo” : ..San Gennaro non ama in realtà che la sua patria; la protegge contro ogni pericolo, la vendica di tutti i nemici… Il rapporto strettissimo del santo con il suo popolo viene tenuto saldo dal ripetersi del prodigio dello scioglimento del sangue; nessun napoletano può dimenticare come nel 1973, anno dell’epidemia di colera, e nel 1980, anno del terremoto, il sangue non si disciolse.

La devozione per la Madonna Bruna della chiesa del Carmine

Nel 1500 l’icona duecentesca della Madonna Bruna del Carmine fu portata a Roma dall’Arciconfraternita dei cuoiai per il pellegrinaggio dell’Anno Santo. Molti furono i miracoli che avvennero al passaggio dell’immagine sacra, ed al suo ritorno l’accoglienza riservatale dal popolo fu straordinaria, mentre continuavano i miracoli della guarigione dei malati. Per ordine del sovrano il 24 giugno dello stesso anno si radunarono nella chiesa moltissimi malati che richiedevano alla Vergine la salute; quel giorno era mercoledì. Da allora si decise di venerare in modo particolare tutti i mercoledì la Vergine Bruna, e ancor oggi la devozione dei napoletani nei “mercoledì del Carmine” è fervidissima.

La devozione per Santa Patrizia

Il culto della santa – protettrice delle ragazze in cerca di marito e delle partorienti, compatrona di Napoli dal 1625 – è molto sentito dai napoletani. Ogni martedì – giorno dedicato alla venerazione di Santa Patrizia – moltissimi fedeli affollano le celebrazioni eucaristiche nella chiesa di San Gregorio Armeno, dove dal 1864 si conservano le spoglie e le reliquie della vergine. Il 25 agosto si ripete il prodigio dello scioglimento del sangue di Santa Patrizia, sgorgato miracolosamente dal suo corpo incorrotto dopo che un pellegrino desideroso di possedere una reliquia aveva strappato un dente dal teschio della santa, ed ogni anno centinaia di fedeli gremiscono la celebrazione liturgica presieduta dall’Arcivescovo.

La devozione per Santa Maria Francesca delle cinque piaghe

Nel cuore di quartieri spagnoli, in vico Tre Re a Toledo, c’è un piccolo santuario dedicato a Santa Maria Francesca delle cinque piaghe, terziaria francescana morta nel 1791 e canonizzata nel 1867. Grande è la devozione del popolo napoletano per la “santa dei quartieri”: in particolare si ritiene che le donne sterili che si siedono sulla sedia dove riposava la santa, conservata in una della sale del convento, possano ottenere la desiderata gravidanza.

Il culto per le anime del purgatorio

In epoca post-tridentina il culto per le anime del purgatorio assunse grande rilievo. Esse divennero sante, e ben presto si introdusse un vero rapporto di reciprocità tra i fedeli e le anime dei defunti che, una volta uscite dal purgatorio, intercedono per i fedeli che avevano pregato in loro suffragio. Alla fine del XIX secolo a Napoli, con la sistemazione del Cimitero delle Fontanelle, si sviluppò il culto per le anime “pezzentelle”, quelle anonime ed abbandonate e per questo bisognose di intercessioni. Si introdusse così un forte rapporto di reciprocità, una vera e propria adozione, per le anime del defunti anonimi che avevano bisogno del “refrisco” (refrigerio ed intercessione), adozione che oltre alla preghiera consisteva anche nella sistemazione e nella pulizia delle ossa del defunto.

Il cimitero delle Fontanelle

I resti delle numerose vittime delle epidemie che avevano devastato la città di Napoli – la peste del 1656 ed il colera del 1836 – vennero in massima parte malamente depositati in una grande cava di tufo che si estendeva in una superficie di circa trentamila metri quadri nel quartiere di Materdei, al sud del quartiere della Sanità. Ad essi si aggiunsero quelli provenienti dalle tante terre sante che si trovavano al di sotto delle chiese, sia per il sovraffollamento delle aree ipogee che per gli effetti degli editti napoleonici, ed il cimitero delle Fontanelle divenne il vero e proprio ossario della città. Nel 1872 il canonico Gaetano Barbati, con il consenso e la protezione del Cardinale Riario Sforza, avvalendosi della collaborazione di alcune popolane, organizzò una sistemazione delle ossa che furono pulite , radunate e composte per tipologia (crani, femori, tibie etc.). Da quel momento si sviluppò il culto per le “anime pezzentelle”, quelle anonime ed abbandonate, per cui i fedeli adottavano una “capuzzella”, o meglio si facevano scegliere dal defunto che gli appariva in sogno indicandogli dove trovare i suoi resti. Da quel momento il teschio veniva sistemato in una teca , che poteva di essere di marmo, di legno, di ferro, di vetro, di cartone o addirittura una scatola di biscotti , e la sua cura veniva tramandata di padre in figlio.

Il Purgatorio ad Arco

Il culto per le anime purganti nella chiesa del Purgatorio ad Arco, sede dell’Opera Pia nata nel 1606, si sviluppò nel secondo dopoguerra, nel solco delle esperienze maturate nel Cimitero delle Fontanelle e nella Basilica di S. Pietro ad Aram. Mentre nel cimitero delle Fontanelle le ossa – trasferitevi con l’epidemia di colera del 1836, dal cimitero delle 366 fosse e da altre fosse comuni – non erano sepolte, e la loro sistemazione era dunque un atto di pietà, al Purgatorio alcuni dei resti che si trovavano nell’ipogeo della chiesa vennero estratti dalla terra santa, ripuliti ed esposti al culto nel corso di un sistematico lavoro di restauro dell’area. Le fosse ed i giardinetti furono sistemati ed illuminati con lampadine elettriche la cui accensione veniva sostenuta con le offerte dei fedeli, nel solco del crescente fenomeno di devozione per le “anime pezzentelle”, di cui nessuno si prendeva cura. Ancora oggi il culto per i resti esposti al Purgatorio ad Arco è costantemente praticato: particolare venerazione è per il teschio detto di Lucia, che porta il velo nuziale.

S. Pietro ad Aram

Il culto per le anime pezzentelle nella chiesa di San Pietro ad Aram è certamente anteriore a quello della chiesa del Purgatorio ad Arco ma ancora poco studiato (cfr. R. Civitelli, Il culto delle anime pezzentelle al Purgatorio ad Arco nel secondo dopoguerra, San Sebastiano al Vesuvio, NA, 2016).

Le edicole votive

Presenti su tutto il territorio italiano assumono un significato diverso a seconda del sito di appartenenza. Il tratto che le accomuna è quello di essere nate per devozione privata, segno tangibile di un rapporto con il divino che si sviluppa – a differenza dell’edilizia più spiccatamente sacra – senza la necessaria mediazione del clero. Le edicole votive napoletane sono un patrimonio diffuso, multiforme, con caratteristiche disparate ed in continua “evoluzione”: edicole vecchie di secoli ed altre recentissime, edicole abbandonate ed altre pulitissime, illuminate, con fiori freschi continuamente ricambiati, edicole ai vecchi crocevia ed altre nei cortili dei palazzi. Da segnalare, infine, il particolare uso delle edicole votive che il domenicano padre Rocco mise a punto nel XVIII secolo, quando le strade erano infestate dai malviventi. Fallito ogni tentativo di posizionare lanterne sulle finestre delle case, immediatamente distrutte dai malfattori, padre Rocco distribuì nei punti strategici del tessuto viario delle città centinaia di immagini devozionali con Santa Maria Scala Coeli ed il Crocifisso, imponendo ai devoti di illuminarle e provvedendo di fatto alla prima illuminazione stradale con fiaccole e lumini che i ladri non osavano profanare.

Lo struscio del giovedì santo

Tradizione napoletana di visitare i ‘sepolcri’ (gli altari della reposizione) nella sera del giovedì santo, ancora oggi abbastanza praticata. La visita ai sepolcri, che devono essere in numero dispari, preferibilmente sette, si svolge soprattutto nella chiese della zona intorno a via Toledo ed è chiamata “struscio”. Il nome deriva da un’ordinanza emanata dal vicerè spagnolo nel 1704, che vietava la circolazione di cavalli e carrozze nella zona limitrofa alla via Toledo, dove la popolazione si accalcava per visitare i sepolcri. Il sovraffollamento era tale che si procedeva con estrema lentezza, strusciando i piedi a terra, da cui appunto il nome ‘struscio’.

Le feste religiose

Lo scioglimento del sangue di san Gennaro

Il sangue di san Gennaro, raccolto dalla nutrice Eusebia nel giorno del martirio e conservato nella Cappella del Tesoro nel complesso monumentale della cattedrale di Napoli, si scioglie tre volte all’anno: il sabato che precede la prima domenica di maggio – in ricordo della traslazione del corpo del patrono dall’Agro marciano alle catacombe di Capodimonte – il 19 settembre, giorno del martirio, ed il 16 dicembre, a memoria dell’intervento di San Gennaro – apparso su una nube – per fermare la terribile eruzione del Vesuvio del 1631.

Lo scioglimento del sangue di Santa Patrizia

Antiche tradizioni agiografiche narrano che Santa Patrizia – nobile nata a Costantinopoli che rinunciò al lusso per dedicare la sua vita a Cristo – morì a Napoli il 25 agosto del 685. Nel 1864, con la chiusura del Monastero di Santa Patrizia, le sue spoglie e le sue reliquie furono trasferite nella chiesa di San Gregorio Armeno. Si racconta che un cavaliere desideroso di possedere una reliquia della santa strappò un dente dal corpo incorrotto della vergine morta secoli prima e che dalla bocca della santa sgorgasse sangue vivo, immediatamente raccolto in due ampolline. Ogni anno, il 25 agosto, alla presenza di centinaia di fedeli, si ripete il prodigio della liquefazione del sangue.

La festa d’o cippo di S. Antonio

La festa di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, vede l’accensione di molti falò – i cosiddetti ‘cippi’- nelle strade di molti centri della Campania nella notte tra il 16 ed il 17 gennaio. A Napoli il fenomeno è ora ampiamente ridimensionato, ma sino agli anni ’70 i quartieri della Sanità e di Forcella brulicavano di fuochi, mentre un colossale rogo – che veniva sollecitamente spento dai pompieri – veniva allestito nel borgo di Sant’Antonio (‘o buvero ‘e Sant’Antuono), nei pressi di via Foria, dove ha sede la chiesa trecentesca dedicata appunto al santo. La mattina del 17 gennaio, sul sagrato della chiesa di Sant’Antonio Abate a Napoli (ed in molte altre chiese campane ed italiane) vengono portati animali domestici di tutti i tipi per ottenere la speciale benedizione. All’inizio dell’Ottocento dopo la benedizione degli animali i fedeli facevano per tre volte, di corsa, il giro attorno alla chiesa (A. De Iorio, Indication des choses les plus rémarquables qui existent à Naples et dans ses environs, Napoli 1818).

La processione di San Gennaro

Il sabato che precede la prima domenica di maggio si svolge la grandiosa processione che ricorda la traslazione delle reliquie di San Gennaro dall’Agro Marciano a Napoli, nelle catacombe sulla collina di Capodimonte. E’ una delle tre ricorrenze annue in cui avviene il prodigio dello scioglimento del sangue di San Gennaro. Nel suggestivo corteo – che parte dalla cattedrale ed arriva alla basilica di Santa Chiara dove si svolge la celebrazione eucaristica – vengono portati a spalla il Busto ed il Reliquiario del sangue di San Gennaro, seguiti da decine di busti in argento dei santi compatroni della città. Si tratta di uno spettacolo unico, di particolare attrattiva, con la teoria dei santi che seguono il patrono in un percorso che si snoda nel cuore del centro antico della città, tra la folla festante che si affolla lungo il percorso della processione.

La festa di Piedigrotta

Le prime notizie sulla Piedigrotta risalgono alla seconda metà del XIV secolo (1487), quando viene citata una festa che si svolgeva nella chiesa di Santa Maria della Grotta nel giorno della nascita di Maria, l’8 settembre. Fu però con Carlo di Borbone, alla metà del ‘700, che l’evento assunse proporzioni grandiose con la processione dei carri allegorici sino al Palazzo Reale. A partire dal 1835 la musica assunse grande importanza nell’ambito dei festeggiamenti, con una gara di canzoni; nella seconda metà del secolo essi ebbero un ruolo di spicco per il lancio di nuovi brani canori, di cui editori e tipografi stampavano migliaia di spartiti ed opuscoli. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo la festa perse la sua funzione mistica e religiosa per diventare un grandioso spettacolo con regate, sfilate,canzoni, luminarie e fiaccolate che partivano dal quartiere addobbato a festa e si svolgevano per le strade della città, sviluppando l’indotto turistico e dando lavoro a centinaia di persone. Sin da quell’epoca ci furono i primo sponsor.

La festa si è svolta costantemente nel corso dei secoli sino al 1982, quando fu sospesa per devolverne i fondi in favore dei terremotati; è poi ripresa nel 2007. Negli ultimi anni l’aspetto più propriamente religioso è stato curato con grande attenzione, con celebrazioni eucaristiche, preghiere e processioni.

La festa della Madonna del Carmine

La festa della Madonna del Carmine, ricca di celebrazioni religiose che partono molti giorni prima, ha il suo culmine il 16 luglio con l’ “incendio del campanile”, straordinario spettacolo pirotecnico in cui il campanile della chiesa viene letteralmente inondato da una pioggia di fuochi d’artificio. E’ una festa che si svolge senza contributi pubblici, con i soli proventi delle donazioni dei fedeli alla Madonna Bruna.

L’origine dell’ “incendio” è probabilmente da ricercarsi nell’antica tradizione – documentata sin dai tempi della rivolta di Masaniello, e dunque dal 1647 – di costruire nell’attigua Piazza Mercato un castello di legno che veniva attaccato da un gruppo di popolani e quindi bruciato. Già alla metà del XVII secolo la festa richiamava un folto numero di partecipanti, e sappiamo che nel 1735, l’anno successivo alla sua salita sul trono di Napoli, Carlo di Borbone donò della polvere pirica per i festeggiamenti della Madonna Bruna.

La processione di San Vincenzo

Le processioni della statua di San Vincenzo Ferrer (‘o Munacone’) conservata nella chiesa di Santa Maria della Sanità si svolgono il 5 aprile ed il primo martedì di luglio. Nella prima, che ha luogo il giorno in cui la chiesa cattolica venera il santo, la statua viene portata in processione dalle associazioni cattoliche di quartiere; all’uscita dalla chiesa si svolge il famoso ‘trase e jesce’ (entra ed esci), quando i portatori portano indietro ed avanti, per tre volte, la scultura. La processione di luglio – accompagnata da bambini vestiti da fraticelli domenicani e da contadinelle – ricorda invece l’intercessione operata dal santo per fermare l’epidemia di colera del 1836.

La festa dei gigli di Barra

La festa dei gigli di Barra – quartiere orientale della città di Napoli – fu istituita nel 1822 con la costruzione di un primo castelletto (il giglio) che fu però portato in processione solo dall’anno successivo. La festa è nata nel solco di quella – famosissima – di Nola, perché molti degli alzatori della festa nolana erano originari di Barra e decisero di introdurre la parata dei gigli anche nel loro territorio. A partire dal 1840 la festa fu definitivamente fissata nell’ultima settimana di settembre e si svolge regolarmente con il coinvolgimento di tutta la cittadinanza che si prepara durante tutto l’anno per l’organizzazione della ‘parata’ dei gigli. Ogni giglio viene trasportato a spalla da un gruppo di 128 alzatori “attivi” detto “la paranza”, che si alternano in un gruppo di circa 300 nel trasporto della colossale macchina, dal peso di circa 25 quintali. Gli alzatori, detti anche cullatori dal caratteristico movimento oscillante dei gigli, sono coordinati da un capo paranza- il ‘caporale’- che cura le direttive e la sincronia di un complesso alternarsi di saltelli, scossoni, ondeggiamenti e girate.

ARTIGIANATO

San Gregorio Armeno, la strada dei pastori

Via San Gregorio Armeno si snoda lungo uno dei cardini della città greca, in prossimità dell’Agorà e del Tempio di Cerere. Proprio lì dove secondo Roberto Pane venivano prodotti e commercializzati ex voto per la dea della terra e della fertilità hanno oggi sede decine di laboratori e rivenditori di pastori. Ogni anno migliaia di turisti si affollano per visitare questa strada nel cuore del centro antico con le sue botteghe, dove si possono acquistare pastori e tutto l’occorrente per allestire presepi.

I fuochi d’artificio

Il commercio degli spettacolari fuochi d’artificio che illuminano il capodanno e le feste napoletane avviene perlopiù nella zona intorno a Piazza Mercato, dove alcuni negozi vantano un’attività che risale ad oltre un secolo fa. Il capodanno napoletano è uno spettacolo pirotecnico unico cui partecipa tutta la città: a partire dalla mezzanotte e per circa un’ora da tutte le abitazioni vengono ‘sparati’ fuochi di tutti i tipi, che illuminano a giorno la notte del capodanno. Solo negli ultimi anni – grazie anche alle confische di migliaia di fuochi di produzione clandestina – il numero dei feriti dai fuochi della notte dell’ultimo dell’anno è sensibilmente diminuito.

DEVOZIONI DOMESTICHE

La preparazione del caffè

La caffettiera napoletana fu inventata a Parigi nel 1819 da Morize, che mise a punto il sistema in cui la bevanda viene ottenuta per percolazione dell’acqua bollente in un filtro che contiene la polvere di caffè. Nonostante le origini francesi della macchinetta è tuttavia innegabile che la preparazione del caffè con la macchinetta napoletana sia una tradizione spiccatamente partenopea, un vero e proprio rito straordinariamente descritto nel monologo di Eduardo De Filippo in Questi fantasmi!

La tombola

Nata a Napoli forse già nel XVIII secolo, la tombola è ancora oggi molto giocata nel periodo natalizio, quando le famiglie si riuniscono per le festività. Viene “officiata”, e cioè l’estrazione del numero è accompagnata dalla declamazione del suo significato simbolico. Quella domestica viene detta affiggiatella, per distinguerla da quella ufficiale, o “bona affiggiata”. Così come il gioco del Lotto è collegata alla Smorfia, il libro per l’interpretazione dei sogni dove persone,oggetti e situazioni sono trasformate in numeri.

Il gioco del lotto

Gioco antichissimo e presente da sempre in tutta l’Italia, ha sempre avuto a Napoli una grande diffusione. Il popolo napoletano ricorre da sempre alla Smorfia, libro per l’interpretazione dei sogni che li ‘converte’ in numeri.

La Smorfia

Il termine Smorfia è probabilmente derivato dal nome di Morfeo, dio del sonno. E’ un testo anonimo, frutto del lavoro di molti autori che hanno sistematizzato ed ordinato le tradizioni orali preesistenti facendole confluire in un ampio vocabolario (di circa 50.000 voci) cui ad ogni parola corrisponde un numero. Il testo è corredato da tabelle per derivare numeri da altri numeri. La Smorfia era prevalentemente diffusa in una forma semplificata ed illustrata con immagini (perché fosse consultabile anche dagli analfabeti) che si trovava sin dall’Ottocento in tutti i banchi lotto, ma anche in molte case.

Le carte napoletane

Fra le carte da gioco italiane, costituite da un mazzo di 40 carte con i quattro semi spagnoli (spade, coppe, ori e bastoni, indicativi delle varie classi della società medioevale, i soldati, i contadini, i mercanti ed il clero), le napoletane sono molto diffuse. Da segnalare la grande similitudine con le carte piacentine, siciliane, romagnole, sarde ed abruzzesi.

Tressette

Gioco di carte di probabile origine spagnola o napoletana, e che si gioca con molte varianti regionali con un mazzo di 40 carte di tipo italiano. Il gioco era già diffuso a Napoli nel XVII secolo perché citato nella famosa canzone “Michelemmà” ( E’ ‘nnata ‘miez ‘o mare ‘na scarola – E li Turche se la jocano a tressett).

Il presepe

L’amore del popolo napoletano per il presepe è efficacemente rappresentato nel primo atto della commedia di Eduardo De Filippo Natale in casa Cupiello (1931), dove il protagonista, Luca, desidera dedicarsi come tutti gli anni al meticoloso allestimento del presepe ma senza riuscirci. La tradizione è ancora oggi molto sentita.

Gli zampognari

Di provenienza appenninica (Abruzzo, Irpinia); in molte case viene prenotata la loro performance quotidiana per tutto il periodo dell’avvento, che si svolge davanti al presepe.

I cibi “di devozione”

È interessante tutta la tradizione culinaria in quanto intrecciata ai periodi festivi, alle alternanze stagionali, al consumo delle primizie in coincidenza con precise ricorrenze religiose e feste di santi. Nella lingua quotidiana si dice “mangiare per devozione”.

La pastiera

Tipico dolce pasquale napoletano con l’esterno in pasta frolla ed una abbondante farcia di ricotta, grano bollito nel latte, zucchero e frutta candita, aromatizzata con cannella, vaniglia ed acqua di fiori d’arancio.

Narra la leggenda come in primavera il popolo portasse alla Sirena Partenope doni di farina, ricotta, uova, grano, fiori d’arancio, spezie e zucchero in segno di riconoscenza. La sirena avrebbe poi mescolato questi ingredienti evocativi della ricchezza e della fertilità della terra napoletana creando con arti divine un dolce speciale: la pastiera. La ricetta nacque probabilmente in uno dei tanti conventi di suore ed è sicuramente molto antica, citata anche ne La gatta Cenerentola, sesto racconto del Pentamerone di Giovan Battista Basile.

La pastiera è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Gli struffoli

Tipico dolce natalizio di cui si ignora l’esatta provenienza (secondo alcuni potrebbe derivare da una pietanza greca, secondo altri potrebbe essere un piatto di origine mediorientale). Diffusi in tutta l’Italia centro-meridionale (in Umbria ed Abruzzo hanno il nome di ‘cicerchia’), sono delle piccole palline di pasta frolla fritte nello strutto e legate con miele abbondante con aggiunta di canditi e “diavolilli” , confettini colorati o argentati di grande effetto decorativo. Si tratta di un dolce tipicamente natalizio.

Gli struffoli sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

I roccocò

Tipico dolce napoletano che veniva tradizionalmente consumato il giorno dell’Immacolata, che a Napoli sancisce l’inizio delle festività natalizie. Il roccocò ha la forma di un tarallo schiacciato dal diametro di otto – dieci centimetri; l’impasto è a base di farina, mandorle, zucchero, aromi vari (il cosiddetto ‘pisto’) ed ammoniaca per dolci. L’assenza di lievito li rende particolarmente duri, e pertanto vengono spesso ammorbiditi inzuppandoli nel vino.

I roccocò sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

I raffioli (o raffiuoli)

Dolci natalizi di forma ovale, di morbido pan di Spagna imbottito con crema di ricotta e gocce di cioccolata e ricoperto da una glassa bianca. Sarebbero stati ‘inventati’ nel XVIII secolo dalle monache del convento di San Gregorio Armeno che vollero realizzare un raviolo dolce, da cui il nome “raffiolo”. I raffioli sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania

I mostaccioli o mustaccioli

Biscotti natalizio a forma di rombo a base di farina, zucchero, cacao ed aromi e ricoperto da una glassa di cioccolato. I mostaccioli sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

I Susamielli

Biscotti natalizi a forma di “S”, a base di farina, mandorle, zucchero, miele ed aromi. La loro produzione è già documentata all’inizio del XVI secolo. I susamielli sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

La pizza di scarole

Pizza rustica tipica della cucina napoletana, fatta con l’impasto della pasta del pane ripieno con scarole soffritte con olive, capperi, pinoli, uva passa ed acciughe. Viene preparata soprattutto nel periodo natalizio. La pizza di scarole è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Le zeppole di S. Giuseppe

Tipico dolce della cucina meridionale (e dunque non solo napoletano) che in genere viene consumato il 19 marzo, giorno della festa di San Giuseppe. E’ un impasto lievitato, a forma di ciambella, fritto (ma oggi cotto anche al forno) e successivamente decorato con crema pasticciera ed amarene sciroppate. Sarebbe nato, nella sua versione napoletana, in uno dei tanti conventi di suore ( a S. Gregorio Armeno, a Santa Patrizia o alla Croce di Lucca); la prima ricetta a stampa è nello storico testo di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, Cucina teorico-pratica, (1837).

Le zeppole di San Giuseppe sono un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Minestra maritata

Tipico piatto della cucina napoletana che deve il suo nome al riuscitissimo “matrimonio” tra carne e verdura. Secondo Vittorio Glejeses le origini del piatto sarebbero addirittura romane perché una ricetta analoga è presente nel De Coquinaria di Lucio Apicio. Secondo altri studiosi sarebbe invece stata introdotta a Napoli dagli spagnoli. La ricetta è a base di carni miste e verdure assortite (tra cui scarole, cicorie, verza, e borragine che le conferiscono il tipico gusto amarognolo) che vengono fatte cuocere assieme a scorze di formaggio. Tradizionalmente sulle tavole il giorno di Natale, viene spesso consumata anche in occasione delle festività pasquali.

Il tortano e il casatiello

Tipiche torte rustiche napoletane, legate al periodo pasquale, sono costituite da un impasto di farina e lievito con l’aggiunta di salame, formaggio, pepe, sugna, cicoli (residui della lavorazione della sugna), uova sode. Il casatiello differisce dal tortano perché vi sono letteralmente “incastonate” , fissate con delle croci di pasta, delle uova intere che diventano sode con la cottura. Il casatiello è un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il torrone dei morti

In tutta la Campania è tradizione preparare nei giorni del 1 e del 2 novembre un torrone morbido, a base di cioccolato e con l’aggiunta di vari prodotti come il caffè, il pistacchio, le mandorle, le nocciole. La forma ricorda quella di una bara (da cui il nome di “murticiell”) ed è piuttosto grande, con una sezione di circa dieci centimetri di lato. Viene venduto a fette.

I piatti “domenicali”

Il gattò di patate

Si dice che il gattò (italianizzazione del francese gâteau) sarebbe stato creato da cuochi francesi in occasione del matrimonio di Ferdinando di Borbone con Maria Carolina d’Austria. L’uso di ingredienti tipici del territorio partenopeo (il salame, la provola fresca), e del burro, tipico della cucina francese, fa pensare ad una contaminazione di culture gastronomiche. Il gattò è oggi universalmente riconosciuto come prodotto tipico dell’arte culinaria partenopea ed è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

La parmigiana di melanzane

Nonostante l’incertezza sull’origine campana o siciliana della parmigiana di melanzane, questa è inserita tra i prodotti agroalimentare tradizionali campani riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania. Da segnalare che anche la melanzana lunga di Napoli è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto.

La genovese

Tipico piatto della cucina napoletana la cui origine è molto incerta: secondo alcuni risalirebbe addirittura al XV secolo nelle osterie dei cuochi genovesi, secondo altri al XVII secolo. Il sugo fu però probabilmente messo a punto nella sua versione attuale solo alla metà del XIX secolo perché nel testo di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, Cucina teorico-pratica, (1837),viene riportata una ricetta meno elaborata di quella attuale. Si tratta di un sugo – tradizionalmente consumato la domenica – a base di cipolle e manzo con cui vengono conditi gli ziti spezzati. La genovese è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il ragù

La cottura del ragù, piatto tipico della tradizione napoletana, è estremamente lunga e laboriosa e dunque si tratta di una pietanza la cui preparazione iniziava il sabato sera per essere destinata al pranzo domenicale. Si tratta di un sugo di pomodoro ristretto nel quale vengono fatti cuocere vari tipi ci carne. La consistenza cremosa e la ricchezza del sugo – decantato anche da Eduardo De Filippo nella sua poesia intitolata appunto “O rraù”- è dovuta alla cottura a fuoco lento che si protrae per non meno di quattro – cinque ore. Secondo la leggenda il primo ragù risalirebbe alla fine del XIV secolo ( dunque quando ancora in Italia i pomodori non erano conosciuti) per ammansire un mobile iracondo che rifiutava di rappacificarsi con i suoi nemici nonostante le incitazioni della Compagnia dei Bianchi della Giustizia. Sua moglie, per cercare di ammansirlo, gli preparò un piatto di maccheroni e per due volte sulla pasta bianca comparve miracolosamente un sugo rosso e denso che ricordava il sangue. Inutile dire che a questo punto il nobiluomo fece pace con i suoi nemici ed indossò la candida veste degli affiliati alla Compagnia dei Bianchi della Giustizia. Il ragù è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il sartù di riso

La ricetta del sartù di riso, ideata nel XVIII secolo dai cuochi francesi che lavoravano per la corte e l’aristocrazia è già compresa nel testo di Vincenzo Corrado, Il Cuoco Galante, Napoli 1793 e poi in quello di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, Cucina teorico-pratica, (1837). Il sartù tradizionale, piatto principe della cucina napoletana, ha forma cilindrica piuttosto alta ed è costituito da un involucro di riso che contiene al suo interno un’imbottitura che può contenere uova, piselli, polpettine, fegatini, funghi, mozzarella o provola. Anche Eduardo De Filippo nel suo poemetto gastronomico in quartine Si cucina cumme vogl’ì, scritto alla metà degli anni ’60 ma pubblicato postumo a cura della moglie Isabella, ne decanta la ricetta:

Nu sartù turzuto e àveto,
ova toste e purpettine,
cu ‘e pesielle e chin”e provola,
parmigiano e fegatine,
zuco ‘e carne e a ffuoco lento
fin’a quanno ll”e cuociuto;
quann’è cuotto o sta a mumento,
n’avvampata e ll”e arrussuto.
Se po’ fao cu ll’uovo, in bianco,
parmigiano e muzzarella,
‘e pesielle, ‘a murtadella…
E si po’ te vuo’ spassà,
nce puo’ mettere ‘o tartufo
o na vranca ‘e fungetielle,
chill”e chiuppe e chiuvetielle:
rrobb”e Napule, gnorsì

LA VITA QUOTIDIANA

Cibi di strada

Naturalmente tutti questi cibi hanno una versione o un uso “da tavola”.

La pizza

Difficile stabilire le origini della pizza napoletana: si tratta di un prodotto dagli ingredienti semplici – farina, acqua, lievito e condimenti vari – che secondo alcuni deriverebbe addirittura dalle focacce degli antichi romani. Le prime pizze affini a quelle odierne risalgono probabilmente già al XVII secolo: si trattava di pasta per il pane cotta nei forni a legna e condita con strutto, aglio, sale e formaggi ; le prime pizzerie si diffusero a Napoli nel corso dell’Ottocento. Le due varianti classiche sono la Margherita (con olio, pomodoro, fiordilatte e basilico) e la Marinara (con olio, pomodoro, basilico, origano ed aglio). La pizza di strada viene tradizionalmente venduta piegata in quattro (‘a libretto’). La pizza napoletana verace artigianale è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il calzone

Il calzone napoletano è costituito da una pizza ripiegata a mezzaluna ed imbottita con ricotta, formaggio, salame o prosciutto. Sul calzone così ottenuto viene steso un sottile strato di pomodoro e quindi infornato nel forno a legna.

Il calzone è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

La pizza fritta

La pizza fritta è preparata utilizzando l’impasto della pizza tradizionale piegato a mezzaluna ed imbottito con ingredienti poveri: ricotta, ‘cigoli’ (ciccioli di maiale ottenuti dalla lavorazione delle parti grasse) e pepe. Un tempo era diffusa l’abitudine che le donne preparassero pizze fritte nei loro bassi per venderle ai passanti – chi non ricorda Sofia Loren ne L’oro di Napoli che vende pizze nei vicoli? – con l’usanza del pagamento ‘oggi a otto’, e cioè posticipato di otto giorni per chi non poteva farlo subito. Ancora oggi, di domenica, qualche massaia vende pizze fritte preparate in casa nei quartieri spagnoli, meraviglioso street food artigianale derivato dalla tradizione.

I taralli

I taralli con sugna e pepe (‘nzogna e pepe’) sono un’antica ricetta napoletana: nati come cibo povero – perché riutilizzava gli avanzi dell’impasto del pane – sono documentati nella storia dell’alimentazione napoletana sin dal XVII secolo. Nacque poi la professione del ‘tarallaro’ che girava per la città con la sporta piena di taralli, mentre nel corso del XIX secolo l’impasto fu arricchito con mandorle tostate. La vendita di taralli come street food è presente su tutto il territorio cittadino ma è particolarmente legata al passeggio sul lungomare di via Caracciolo, tradizionalmente accompagnato da un sacchetto di taralli e da una birra.

I taralli con le mandorle ed i taralli con sugna e pepe sono un prodotti agroalimentari tradizionali campani riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Le sfogliatelle

Margherita “a libretto” e sfogliatella sostituiscono in modo del tutto appagante un intero pranzo. La sfogliatella sarebbe nata nel XVII secolo nel convento di Santa Rosa, a Conca dei Marini (SA), quando una suora addetta alla cucina – Suor Brigida – cercò di riutilizzare un avanzo di semola cotta nel latte arricchendolo con zucchero, frutta secca e limone e cuocendolo tra due sfoglie di pasta. La superiora, consapevole della riuscita dell’esperimento, ne fece iniziare la produzione e la vendita con il nome di “Santa Rosa”. Ad avvalorare questa tesi sarebbero alcuni documenti conservati nell’archivio della chiesa di San Pancrazio a Conca dei Marini, tra i quali la ricetta della prima “Santa Rosa” elaborata da Suor Brigida. Alcuni studiosi pensano invece che possa essere nata in uno dei tanti conventi napoletani di suore, probabilmente alla Croce di Lucca ma forse anche a Santa Chiara o a San Gregorio Armeno. Nel 1818 – e questa è storia certa – un oste napoletano, Pasquale Pintauro, entrò in possesso della ricetta della “Santa Rosa” e da quel momento la sua professione divenne quella di pasticciere, mentre la sua osteria di via Toledo divenne un laboratorio ed un punto di vendita tuttora affollatissimo. Pintauro apportò alcune modifiche alla ricetta originale e soprattutto introdusse una nuova versione, quella riccia, ricoperta da pasta lamellare e dalla caratteristica forma di conchiglia. Per entrambe le versioni – la riccia e la frolla – il ripieno è costituito da ricotta, semolino, canditi, zucchero, vaniglia e cannella. La sfogliatella è un prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il babà

Considerato uno dei dolci napoletani per eccellenza il babà avrebbe in realtà origini lontane e sarebbe nato in Lorena, durante l’esilio di Stanislao Leszczinski (nel 1735 detronizzato dal regno di Polonia), che pare avesse bagnato casualmente col rum un insipido dolce lorenese, il kugelhupf. Fu lo stesso Stanislao a dargli il nome di babà, dal nome di Alì Babà, protagonista di una delle novelle de “Le mille e una notte”. Ben presto la ricetta fu prodotta in alcune pasticcerie parigine e da lì introdotta a Napoli dagli chef a servizio presso le nobili famiglie napoletane.

Il babà è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

La zuppa di soffritto (o zuppa forte)

Sugo a base di concentrato di pomodoro, interiora di maiale, strutto, olio, peperoncino, aromi e vino. Si tratta di un condimento molto sapido per la pasta o per un “cozzetto” di pane, nato per utilizzare le interiora di maiale. La zuppa di soffritto è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Il brodo di polpo (o bror ‘e purp)

Era il cibo di strada per eccellenza, oggi praticamente scomparso dalla vendita ambulante a causa delle norme igienico – sanitarie. Fino a non troppo tempo fa era ancora possibile incontrare i caratteristici carrettini che vendevano tazze fumanti del liquido di cottura del polpo (il brodo) in cui galleggiavano i tentacoli del mollusco (chiamati ranfetelle). Oggi può essere consumato in alcune trattorie.

Il cuoppo fritto

Il cuoppo è un cono di carta assorbente nel quale vengono venduti cibi fritti. Descritto anche da Matilde Serao ne Il ventre di Napoli, può essere riempito di pesce, paste cresciute, crocchè o altro. Molto diffuso oggi come street food.

Le paste cresciute

Prodotto tipico della cucina napoletana costituito da pasta lievitata fritta in abbondante olio.

Le paste cresciute sono prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

I crocchè di patate (detti anche “panzarotti”)

Antico street food napoletano molto conosciuto, a base di un impasto di patate, che può essere o meno imbottito, ricoperto da pane grattugiato e fritto in abbondante olio.

Il crocchè di patate è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

I friarielli (broccolo friariello di Napoli)

Sono dei broccoletti un po’ amari che costituiscono uno dei piatti tipici della tradizione napoletana. Vengono cotti in olio d’oliva ed aglio, con aggiunta di peperoncino.Tipico il panino “sasicce e friarielli”.

I friarielli sono prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania

Il salame napoletano

Tipico prodotto della Regione Campania con tagli pregiati di maiale e grasso, macinati ed insaccati in budello di suino e vitello prima dell’inizio della stagionatura in ambienti areati. Tipico il panino “salame e ricotta”.

Il salame Napoli è prodotto agroalimentare tradizionale campano riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali su proposta della Regione Campania.

Gelato e sorbetto al limone

Una granita densa, servita su un cono o un “bicchierino” di cialda, con incastonato un pezzo di scorza di limone. Carrettini già a primavera, fino a settembre, la granita in un cilindro di alluminio che galleggia in un tino colmo di ghiaccio, tenuto a temperatura costante cospargendo di tanto in tanto un sale giallo: il cilindro fatto ruotare con energia nel ghiaccio, la granita che si attacca alla parete per forza centrifuga, e poi “grattata via” con un cucchiaio tondo a lungo manico con cui dosare il cono.

I MUSEI

Il Museo di Antropologia

Aperto al pubblico nel 1994, affonda le sue radici già nel 1881, quando l’Università di Napoli fondò il Museo di Antropologia nell’ambito del “Gabinetto di Antropologia”. Promotore era stato Giustiniano Nicolucci, che curò lo studio e la raccolta della prima raccolta, legata essenzialmente alle civiltà preistoriche. Il museo, mai aperto al pubblico, fu praticamente dimenticato sino al 1963 – 64, quando fu ripristinata la cattedra di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Napoli e riconosciuta formalmente l’esistenza del Museo. Le collezioni sono incentrate sulla paleontologia e la preistoria dell’Italia meridionale, cui si aggiungono scheletri di mammiferi, calchi facciali ed un nucleo – non particolarmente consistente ma di estremo interesse – di materiali etnografici provenienti da ogni arte del mondo.

Il Museo laboratorio della civiltà contadina “Masseria Luce”

Nella magnifica cornice della settecentesca masseria “Luce” in San Pietro a Patierno (VII Municipalità del Comune di Napoli) è stato aperto nel 2000 il Museo Laboratorio della civiltà contadina “Masseria Luce”. Il museo ha una sezione dedicata alla religiosità popolare, una agli attrezzi della civiltà contadina (ricchissima di manufatti d’epoca), una alla casa contadina ed agli antichi mestieri ed una sala con centinaia di foto antiche che documentano la civiltà contadina. Il museo cura anche laboratori didattici.

La galleria dei nobili a San Gaudioso

Le catacombe di San Gaudioso, che si aprono sotto la chiesa di Santa Maria della Sanità, sono le seconde per ampiezza della città di Napoli dopo quelle di San Gennaro. Abbandonate nel Medioevo, assunsero nuovamente la funzione di luogo di sepoltura nel XVI secolo e soprattutto in quello successivo, quando vi furono sepolti insigni rappresentanti dell’aristocrazia e del clero. La sepoltura avveniva in modo assolutamente inconsueto: dopo il tradizionale procedimento della ‘scolatura’ – con cui venivano fatti colare dai cadaveri i liquidi delle decomposizione – le ossa venivano lavate e sepolte, mentre il solo teschio veniva incassato nell’intonaco delle pareti della galleria. Sotto il cranio veniva poi affrescato lo scheletro del defunto, parzialmente abbigliato secondo il suo ceto sociale.

Il Museo di Totò

Di prossima apertura al Palazzo dello Spagnolo ai Vergini

I MERCATI

Il mercato del pesce a Porta Nolana

Il mercato del pesce di Porta Nolana, ed in particolare di Vico Soprammuro (da cui assume il nome di “ncopp ‘e mura”), è normalmente molto frequentato. In particolare nelle notti che precedono i pranzi tradizionali a base di pesce (la vigilia di Natale ed il giorno di San Silvestro) è veramente uno spettacolo strabiliante,con una straordinaria varietà e quantità di prodotti ittici esposti e venduti.

Il mercato della Pignasecca

Fra i più antichi mercati napoletani, nella zona a ridosso dei quartieri spagnoli, deve il suo nome ad una leggenda che racconta di un albero di pino seccatosi dopo che un vescovo vi avrebbe fatto attaccare un editto di scomunica. E’ uno dei mercati rionali più frequentato di Napoli, ricco di prodotti alimentari e di street food.

Il mercato di Antignano

Situato nella collina del Vomero, è un ricco ed affollatissimo mercato di prodotti alimentari ed articoli di tutti i tipi.

GIOCHI, USANZE, CREDENZE, VITA DI STRADA

Mazza e pivezo

Gioco molto antico e diffuso in tutta Italia che a Napoli assume il nome di “mazza e pivezo” (mazza e peso). Vengono utilizzati due pezzi di legno: uno più corto (circa quindici – venti centimetri – con le due punte affusolate) , il “pivezo”, e l’altro più lungo (circa cinquanta centimetri), la “mazza”. Il gioco consiste nel colpire il pezzo corto posizionato a terra in modo da farlo saltare in aria e quindi colpirlo al volo per farlo andare quanto più lontano possibile.

Lo strummolo

Piccola trottola in legno con punta metallica fatta girare con un spago detto “funicella” che ebbe grande diffusione nel secondo dopoguerra. Dal gioco deriva il famoso detto “’o strumml a tiriteppola e ‘a funicella corta” (lo strummolo storto e la funicella corta) per indicare una situazione critica, con poche possibilità di sviluppi positivi.

Il carruocciolo

Carrettino in legno di produzione artigianale con quattro ruote, due delle quali sterzanti. Era naturalmente possibile usarlo solo in discesa, tanto più rapida quanto più scoscesa. L’unico sistema frenante era l’attrito dei piedi.

Il caffè sospeso

Tipica usanza napoletana per cui il cliente di un bar consumava un caffè e ne pagava due, lasciandone così uno in sospeso per un futuro avventore, a lui sconosciuto, che sarebbe entrato nel locale chiedendo appunto se ci fossero “caffè sospesi”. Il fenomeno è stato compiutamente analizzato da Luciano De Crescenzo nell’omonimo libro edito nel 2008 da Mondadori. (v. anche https://sabap.na.it/il-caffe/)

“Cultura parlata”

Il fenomeno della “cultura parlata”, comune in tutto il mondo, trova a Napoli una particolare ricchezza e un uso vivo, nel quotidiano, assolutamente insolito. Essa può rifarsi, prima di tutto, ad un repertorio enorme e antichissimo di proverbi, modi di dire e luoghi comuni, di cui partecipa l’intera popolazione, senza distinzione di ceto. Al fenomeno appartiene anche il cosiddetto “paraustiello”, un raccontino ellittico, esemplare, spesso ridotto ad una sola frase, utilizzato nelle conversazioni parlate con fini metaforici e allusivi (letteralmente, piccolo paragone,spesso capzioso e senza un significato chiaro: m’ha purtate ‘nu scacche ‘e paraustielle, ma senza capa né coda !).

Inoltre il repertorio si arricchisce costantemente con citazioni da canzoni, da commedie, da film, con battute famose di autori eponimi (Totò, Eduardo, Peppino, Troisi) che finiscono nel parlato quotidiano.

I gesti

L’arte del gesticolare è un tipico modo di comunicare dei napoletani, ed il “vocabolario” del linguaggio delle mani – spesso arricchito con l’uso della mimica – è ricco di concetti di ogni tipo. Patrimonio che trova le sue radici in un passato antico in continua evoluzione, è’ un linguaggio che esiste grazie all’esclusiva tradizione testimoniale, un linguaggio in continua evoluzione, spontaneo, diffuso e paritetico senza che si possa distinguere tra creatore e gruppo di fruitori.

LA SCARAMANZIA

La superstizione

La superstizione è molto diffusa nella mentalità dei napoletani. La sfortuna può essere allontanata evitando di aprire l’ombrello in casa, di poggiare soldi o cappelli sul letto, di rompere specchi, di sedersi in tredici a tavola, di passare sotto una scala o dove è transitato un gatto nero, per citare solo alcune delle credenze condivise dalla maggior parte dei napoletani, al di là del loro ceto sociale.

Gesti apotropaici, riti portafortuna e scongiuri sono efficaci espedienti per tenere lontana la ‘jella’, la sfortuna e la jettatura, influsso malefico esercitato da persone o cose.

La formula ‘scaramantica’, il mitico scongiuro di Pappagone – lo storico personaggio interpretato da Peppino De Filippo – ben esemplifica quel particolare mix di azioni e gesti per esorcizzare il malocchio.

Aglio, fravaglio, fattura cà nun quaglia. Corna e bicorna, capa e’ alice e capa r’aglio (aglio, piccoli pesci, fattura che non prende, corna e bicorna teste di alici e teste di aglio), parole che se recitate facendo per tre volte il gesto delle corna verso il basso usano le virtù apotropaiche dell’aglio e delle teste di alici per vanificare le ‘fatture’.

Il corno portafortuna (curniciello)

Amuleto diffuso in tutta Italia, il corno è portafortuna per eccellenza dei napoletani, ma solo se ricevuto in dono. Per avere efficaci doti scaramantiche deve inoltre essere “tuosto, vacante, stuorto e cu’ ‘a ponta” (rigido, cavo, di forma sinusoidale ed appuntito).

Il monaciello

Molti napoletani – al di là del loro grado di istruzione e del loro ceto sociale – sono convinti dell’esistenza del ‘monaciello’, piccolo spirito che si manifesta con le sembianze di una persona bassa e deforme. La credenza, le cui origini sono narrate anche da Matilde Serao (Leggende napoletane, 1881) si riferisce ad una specie di fantasma che entrerebbe nelle case con intenzioni malevole (nascondendo e rompendo oggetti) o benevole (lasciando regali). E’ questo il caso della notissima commedia di Eduardo De Filippo, Questi fantasmi! (1945), dove il protagonista sembra voler credere – non si sa se per convinzione o per ‘salvare la faccia’- che sia il ‘monaciello’ a lasciare in casa i soldi che in realtà sono donati alla moglie dall’amante

Malocchio e jettatura

Il malocchio, ovvero la possibilità di procurare malattie e danni con lo sguardo, è credenza diffusa in molti paesi del mondo e gli occhi degli “jettatori” – persone con particolari capacità di produrre influssi negativi – e degli invidiosi avrebbero la capacità di produrre gravi danni. A Napoli la credenza è particolarmente diffusa e codificata nel proverbio “L’uocchie so’ peggio d’ ‘e scuppettate“ (gli occhi possono essere più pericolosi dei colpi d’arma da fuoco).

 

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